Dopo l’argento a Tunisi nel 2001 e il bronzo ad Almeria nel 2005, entrambi al corpo libero, arriva per Enrico Pozzo la terza affermazione personale ai Giochi del Mediterraneo, la quarta, se consideriamo anche l’oro a squadre di martedì. Pescara 2009, dunque, per l’aviere di Biella non poteva rivelarsi più dolce - e non è ancora finita! L’ennesima vetrina per un atleta completo, nel pieno della sua maturità, che, dopo le due finali a Pechino e le due agli Europei di Milano, il secondo posto per un incollatura dietro Morandi agli Assoluti di Meda, in Abruzzo trova, finalmente, la meritata consacrazione, finendo appena 4 decimi alle spalle del bronzo olimpico Benoit Caranobe, quasi 5 punti davanti al ex campione continentale Rafa Martinez e soprattutto al compagno di squadra, l’amico Matteo, con il quale in trasferta divide sempre la stanza e che un mese fa gli soffiò, sotto il naso, il titolo italiano. “Non esageriamo – ci corregge il Piero, come lo chiamano i compagni di squadra – Martinez si è operato, credo, a settembre ad un spalla e non è ancora al 100%, mentre io e Teo lo sappiamo che, a gara fatta, siamo praticamente attaccati. Ieri ho vinto io, probabilmente perché siamo partiti con la rotazione a me più congeniale, il corpo libero al primo giro e poi la sbarra nell’ultimo. Per questo motivo ci sono stati tanti sorpassi, tra me e lui, scambiandoci continuamente il ruolo di anti-francese. Al suolo e al cavallo ero avanti io, poi con gli anelli è passato Matteo, siamo stati lì al volteggio e alle parallele, ma con la sbarra in fondo il match point era in mano mia. Io che sono notoriamente un diesel, parto sempre al rilento, qui mi sono dovuto dare una svegliata fin da subito. Eravamo in sei, tutti vicini e gli altri sono schizzati come razzi. A questo livello, quando vedi che la gara è così tirata, chi si distrae e lascia per strada decimi di punto, è perduto. L’abbiamo sempre detto, nella maschile, senza nulla togliere alle altre sezione, in questi Giochi c’è molta qualità e concorrenza. Con certi avversari l’errore si paga caro. Anche per questo motivo, alla sbarra, ho preferito non rischiare il salto, accontentandomi di difendere l’argento da Hamilton Sabot. Con il Gaylord sarei partito con tre decimi in più, ma, ad ogni modo, avrei dovuto prendere un 15.65 per acciuffare l’oro e visto l’andazzo non credo che sarebbe arrivato, pur facendo l’esercizio della vita. Forse, se fossi stato più vicino a Caranobe, avrei rischiato; lo farò sicuramente, in finale, domani. L’unico rammarico è stato vedere Morandi ai piedi del podio. Sarebbe stato bello salirci entrambi. Certo, lui sempre su un gradino più basso del mio. Ci dicono che siamo vecchi, e, probabilmente vedendo la carica di certi nuovi, qualche volta ci sentiamo tali. Per esempio, quando lo spagnolo Munoz ha finito la sbarra, al termine di sei rotazioni, ha esultato con una carica tale che sembrava volesse continuare a gareggiare in eterno. Io e il Dog (il soprannome di Morandi) ci siamo guardati in faccia, eravamo sfiniti, e senza dire niente è come se ci fossimo detti: ultimo sforzo e poi a casa. In verità, a parte un logoramento fisiologico, noi continuiamo a sentirci giovani, ci divertiamo ed amiamo la Ginnastica, altrimenti non potremmo affrontare tanti allenamenti e privazioni”. Della serie, vengano pure le nuove generazioni, con la loro forza ed entusiasmo, tanto troveranno sempre due nonni azzurri, che con simpatica indolenza, gli insegneranno chi comanda in pedana.