Anna Claudia Cartoni, oggi, avrebbe compiuto 60 anni. Per ricordarla abbiamo deciso di pubblicare una recensione al suo libro, dedicato alla figlia. “Irene sta carina, una vita a metà” (Harpo editore) rimane purtroppo l’unico modo di ritrovare la sua anima mentre il suo corpo è ancora disperso.

Questo libro racconta una storia vera, quella di mia figlia Irene. Una storia che inizio a scrivere sotto forma di diario per lasciare a Irene un resoconto dei suoi primi difficilissimi anni, nella speranza che da grande non ricordi tutte le sofferenze patite nel primissimo periodo della sua vita. Un periodo trascorso in terapia intensiva, fra un’operazione chirurgica e l’altra.

Un diario, dunque, che la potesse aiutare, una volta adolescente e consapevole, a comprendere il perché delle cicatrici sul suo corpo e le scelte fatte da noi genitori. Avevo paura che a distanza di anni quei ricordi e quelle emozioni svanissero e allora ho iniziato a scrivere e a raccontare direttamente a lei tutto quello che stava succedendo sulle pagine di un piccolo quadernetto giallo.

Ma gli eventi, già drammatici, precipitano per un arresto cardiaco avvenuto a dieci mesi. La piccola giunge al pronto soccorso dopo più di mezz’ora, ed io penso, disperata, alla fine.

Ma un nuovo e, se possibile, ancor più insostenibile dramma deve invece appena incominciare. Irene viene rianimata a lungo. Le lesioni cerebrali dovute all’arresto circolatorio sono gravissime, forse neanche riuscirà a sopravvivere, la notte sarà lunghissima ma Irene decide di restare.

Improvvisamente mi rendo conto che non potrà mai leggere il suo diario. E allora, anche con l’incoraggiamento di alcuni amici, decido di cambiare destinatario a quello scritto.

Un capitolo dopo l’altro, descrivo i due anni trascorsi in ospedale, scanditi dagli orari delle visite, dai colloqui con i medici, dalle ore passate nella sala di aspetto della terapia intensiva a cercare di dare un senso al tempo, condividendo con gli altri genitori grandi dolori e piccoli miglioramenti, ma anche tanti momenti di allegria.

La mia vita scorre su un binario parallelo a quella degli altri, ma a un passo più lento. Richiede riflessioni sul senso della vita e sulla sofferenza, soprattutto per quanto concerne quegli aspetti che solo da poco l’umanità sta sperimentando. Scienza e tecnica oggi possono spingere gli eventi in territori inesplorati e far assumere perfino alla vita e alla morte una connotazione a cui, evidentemente, non siamo preparati.

Conclusa la fase ospedaliera mi ritrovo nuovamente immersa nel “mondo degli altri”, ma la vita è cambiata inesorabilmente. Mi trovo a osservare con occhi diversi tutto quanto mi circonda. Occhi che faticano ad adattarsi alla normalità, dopo due anni di vita sospesa in ospedale. Occhi e sguardi che, di fatto, ritrovo solo in chi è passato attraverso un’analoga, disperata esperienza.

Mi sento così una mamma diversa da tutte le altre, impegnata a comprendere quale possa essere il mondo di una figlia che non possiede la parola, intenta a capire le sue necessità soprattutto attraverso un linguaggio non verbale, fatto di segnali impercettibili. Una mamma che deve fare i conti con speranze frustrate, angosce, diritti negati e rimpianti, senza però nessuna commiserazione, recriminazione o rancore.

Un’accettazione della vita in tutti i suoi aspetti, anche quelli più dolorosi, sostenuti da un amore superiore alla sofferenza e alle terribili difficoltà quotidiane. Un amore che accompagna Irene in un’avventura esistenziale estrema ma vissuta con forza e determinazione. Determinazione a non arrendersi a nulla, a godere di ogni possibile gioia, a far vivere a Irene la miglior vita possibile, combattendo giornalmente affinché non sia privata di quegli spazi e di quelle occasioni, come ad esempio la scuola, che riempiono l’esistenza di tutti i bambini.

Attraverso mia figlia, ho conosciuto il mondo della disabilità, le enormi difficoltà che ogni giorno s’incontrano. Burocratiche, strutturali e, soprattutto, sociali, perché l’accoglienza e il rispetto sono concetti molto rari.

Il mondo dell’handicap, comunque, non è fatto di solo dolore, richiama valori umani e profondi. È un mondo pieno di emozioni forti e contraddittorie che si alternano in un’incessante altalena. Un mondo dove esistono spazi di felicità, perché il dolore da solo non uccide.

Sono la mamma di una bambina disabile, ma ai miei occhi Irene è semplicemente mia figlia.

Con questo libro, vorrei che le mie parole giungessero a tutti quelli che sono distanti; a chi non conosce o ha paura della diversità, a chi non si sofferma a pensare perché non ha tempo, a chi fa le leggi senza sforzarsi di ascoltare e capire.

Ho voluto aggiungere in appendice alcune frasi di quel piccolo quadernetto da dove tutto è cominciato, frasi scritte in prima persona a mia figlia Irene, la quale, nonostante la disabilità, oggi “sta carina”. Vive serena e felice, per quanto lei possa percepire questa condizione come la immaginiamo noi. I suoi occhi e il suo sorriso lo confermano ogni giorno, nonostante la sua sia una vita a metà.