ATENE Argento. Chiaro,luminoso e sonante. Con un riflesso d’oro. Perché i giudici della finale a squadre di ginnastica ritmica, ieri al Galatsi Olympic Hall, nulla hanno regalato alle nostre ragazze, anzi. Si sono invece espressi con olimpica benevolenza sul sostanzioso esercizio delle russe, che hanno conquistato il podio più alto con un punteggio finale di 51.100. Le italiane, dopo un’ottima esibizione ai cinque nastri e un’ariosa, trasparentissima performance ai tre cerchi e due palle, hanno sommato 49.450. Terze le bulgare con 48.600.
Elisa Santoni di Roma, Elisa Blanchi di Velletri, Fabrizia D’Ottavio di Chieti, Daniela Masseroni di Trescore Balneario (Bergamo), Marinella Falca di Terlizzi (Bari) e Laura Vernizzi di Como hanno dato lezione di eleganza, di destrezza, di armonia. Prima in nero con inserti trasparenti (i nastri li hanno scelti rossi, di uno squillante rosso carminio), poi in celeste spolverato di cristallo (cerchi e palle in tinta). Ninfe Oreadi per comiciare, uscite dai boschi con sugli abiti qualche macchia di fragola e mirtilli; Oceanine nella seconda parte, mutevoli e puntuali come le maree, orlate di spuma come le onde.
Le signore della grazia. In realtà, sei ragazze solide, tranquille. Ha detto di loro il massaggiatore “principe” della Ginnastica italiana, Salvatore Scintu, sardo con casa a Milano, cha ha avuto fra le mani Chechi e Cassina e gli altri divi azzurri: «Sono sconvolgenti. Nessuna agitazione. Calme, rilassate, sicure di quello che fanno. Sei mostri». Ben altri epiteti ha riservato alle nostre ginnaste il pubblico del Galatsi Hall, irretito dal loro carisma. Sarà che Santoni e compagne non si sono presentate con il maquillage eccessivo adottato invece da gran parte delle atlete (le spagnole e le brasiliane, ad esempio, scempiate da chili di gelatine translucide, ciglia finte, lustrini e manate di eye-liner). Sarà che la serenità di cui parla Scintu si leggeva loro addosso: nell’incedere, affettato ma non troppo, nell’armonia della posizione d’inizio, nel sorriso non tirato con il quale prime giudici di se stesse hanno salutato la fine delle due prove.
Valeva la pena chiudersi a Desio, in provincia di Milano, e lavorare con la serietà quasi eccessiva di cui parla l’allenatrice, Emanuela Maccarani, trentasettenne senza figli che le ha, in pratica, adottate. Valeva la pena studiare ogni sera dopo le 17, avendo addosso la mattina e il pomeriggio spesi in palestra. Valeva la pena festeggiare i compleanni e qualche ricorrenza comandata nell’albergo vicino al centro sportivo che è diventato la loro casa. Parole (e fatti) quali regola, dieta, sacrificio, che i ragazzi di oggi non hanno nel vocabolario quotidiano. Un’ora di telecamere, il sorriso dei genitori, qualche fotografia sui giornali, il telegramma di congratulazione dei politici, locali o nazionali, dipende dal colore della medaglia. Poi torna il silenzio, tornano la lotta contro i limiti del corpo, la necessità di sudare, il dovere di guardare a un nuovo traguardo. Che destino impari, lo sport.
(di Rita Sala "il Messaggero di domenica 29 agosto 2004")