A quattro anni da un grave infortunio il "signore degli anelli" ci riprova: «Portare la bandiera italiana è un onore, ma con i Giochi ho un conto aperto, in pedana».
Lo spasmo è visibile agli occhi, nel tendersi dei muscoli fino al supplizio della croce. Le corde degli anelli hanno smesso di vibrare, ferme. Jury Chechi è tornato.
Un ritorno temerario per chiudere una partita che lui solo sa, aperta sulla grande scacchiera degli anni olimpici bianchi e neri, contro un avversario invisibile che non esita a barare. Barcellona 1992: più nero del nero. Tèndine d’Achille spezzato: scacco matto e scacchiera rovesciata sulla carriera. Atlanta 1996: luce pura, oro zecchino nonostante tutto, troppo bello eppure vero. Sydney 2000: buco nero. In posizione di croce verticale, il braccio sinistro fa il rumore sordo dell’elastico che si spacca. Jury, che conosce il dolore di un tendine rotto, capisce subito. E due.
«Non potevo starci, non mi andava che il destino decidesse il mio futuro al posto mio. Sarei un pazzo se dicessi che non mi appaga la carriera che ho avuto, ma ho vinto cinque Mondiali e la sola Olimpiade di Atlanta: è come se avessi un conto in sospeso. Certo, se quattro anni fa mi avessero detto che sarei andato ad Atene, avrei riso , ma ho continuato ad allenarmi anche senza gare ufficiali: l’intensità era quasi uguale, cambiava la finalità, mancava la ricerca della perfezione. L’anno scorso per sfida ho provato una settimana di allenamento con la Nazionale, mi sentivo bene. I tecnici mi hanno stuzzicato: "La tecnica c’è, se trovi le motivazioni...". Così ho deciso, anche se, famiglia a parte, mi scoraggiavano tutti, anche se per la squadra era difficile riaccogliermi».
L’Olimpiade di Atlanta doveva disputarsi ad Atene, per celebrare il centenario: tra la storia e la Coca-Cola scelsero chi pagava di più. Forse, però, sulla grande scacchiera era fissato per Chechi un appuntamento ad Atene. Lo onorerà il 13 agosto portando la bandiera. «Fare l’alfiere è una responsabilità, ma è più grande la gioia, per uno che crede come me nei valori delle Olimpiadi».
Non che si possa ignorare la paura di profanare il ricordo di Atlanta: «Sono io il primo a non accettare di andare in gara da comprimario, dovessi accorgermi che non sono all’altezza, mi farò da parte. Non ho nulla da dimostrare se non a me stesso, non si tratta di vincere per forza una medaglia, ma per partecipare devo essere competitivo».
Ha la faccia scavata Jury Chechi, in contrasto con la tornitura delle braccia infarinate di polvere di magnesio, lo sguardo penetrante come uno spillo cerca concentrazione in un punto per terra, prima di imprimere la forza che lo farà salire agli anelli un’altra volta. L’allenamento è una ripetizione ossessiva di brandelli di esercizio, ognuno riprova alla nausea il suo pezzo: Matteo Angioletti uno stralcio di diagonale al corpo libero, Igor Cassina un’oscillazione al cavallo con maniglie, Alberto Busnari un’entrata al volteggio. Hanno il fiato leggero, loro.
«Dei vent’anni», racconta Chechi, «non ho più l’irruenza, si è trasformata in esperienza. La tecnica è rimasta, ma a 34 anni ho bisogno di tempi di recupero molto più lunghi. Devo capire i miei limiti e gestire al meglio le risorse».
Una squadra da finale
Per i compagni ha parole lusinghiere: «La squadra può puntare alla finale. Ci sono possibilità concrete di podio nelle singole specialità. La ginnastica è uno sport sincero: Matteo Morandi è tra i migliori "anellisti" al mondo, Andrea Coppolino (ginocchio permettendo) pure. Cassina è forte alla sbarra, Busnari al cavallo con maniglie. Chechi? Chissà, sono vicino a Morandi, manca un mese, proverò a raggiungerlo e superarlo».
A chi gli chiede se non pensi mai chi gliel’abbia fatto fare di tornare, Jury finalmente sorride, di quel sorriso che gli scappò ad Atlanta prima che i giudici emettessero il verdetto della sua consacrazione a "signore degli anelli", quando ancora Tolkien non era di moda. «Me lo chiedo quasi ogni minuto: quando di notte non dormo per quanto sono stanco, quando le braccia non si alzano per il dolore, quando non vedo il mio bambino per un mese e mai avrei immaginato, prima, questa voglia di vederlo, di abbracciarlo, di baciarlo».
Ma c’è una partita in corso e Jury non ci sta a perdere, non lo scoraggia nemmeno il pensiero che la sua fatica avrà come compenso una risonanza molto inferiore rispetto a uno sputo su un campo di calcio.
«Nessuno impone a questi ragazzi e a me di stare in palestra a sudare sei ore al giorno. È una nostra scelta. Sarei ingenuo se negassi che ci sono realtà che gettano forti ombre nello sport mondiale, ma non è la rabbia il mio sentimento. C’è ancora tanto di bello, tante cose sono vere. La mia, la nostra, è una storia pulita di gente che fa sport con passione, per amore della competizione, per sfidare sé stessa. Io credo che questi ragazzi, con tutto il rispetto, vivano meglio di Totti il loro amore per lo sport, e lo stesso vale per me».
Soprattutto per lui che ha vinto già tutto e ormai sa che il senso sta nel giocare, fosse soltanto per accarezzare il sogno di dare per l’ultima volta scacco matto alla dea bendata.

di Elisa Chiari
Dal settimanale "FAMIGLIA CRISTIANA" in edicola